Oggi come oggi ci vengono offerte infinite possibilità di percorsi spirituali, esperienze, seminari di crescita personale da frequentare. Così partiamo per intensi, meravigliosi weekend alla riscoperta di noi stessi, alla ricerca di rivelazioni e nuove visioni. Purtroppo spesso, una volta finito il weekend e tornati a casa, rientriamo nei nostri panni quotidiani, nelle nostre amate/odiate vecchie abitudini, e ci accorgiamo che l’esperienza appena fatta, pur nel suo valore, resta confinata fuori dal nostro quotidiano, in un luogo dentro di noi, ma remoto ed esotico.

Tutto questo, per carità, non ha nulla di sbagliato. Ma quando facciamo un passetto oltre e ci capita di entrare con maggiore profondità in un cammino o una tradizione spirituale, qualunque essa sia, ci scontriamo proprio con la necessità di riportare quello che abbiamo appreso, o di cui abbiamo fatto esperienza in quegli “esotici giorni”, nella nostra vita quotidiana. E lì ci scontriamo con una sinistra presenza: la pratica.

Vale a dire che, qualunque percorso scegliamo, ci saranno esercizi, meditazioni, pratiche da fare più o meno giornalmente. O per lo meno un atteggiamento, un modo di pensare e sentire diversi da integrare nella nostra vita quotidiana. Così scopriamo che tutta quella leggerezza, gli ampi orizzonti aerei che si erano aperti in quei fatidici weekend, il lunedì seguente richiedono lavoro costante e disciplina personale. E lo chiederanno sempre. 

A questo punto, può darsi che l’idea di impegnarci e “metterci sotto” ci piaccia, che anzi per noi dia ancora più valore al percorso intrapreso. Dopo tutto siamo cresciuti tutti, volenti o nolenti, con l’idea che per raggiungere qualcosa si debba faticare, impegnarsi, che senza sudore non si ottenga nulla. In più, veniamo da un retroterra di secoli e secoli di cristianesimo che, con tutto il rispetto, ci ha insegnato che per guadagnarci il paradiso dobbiamo soffrire e sacrificarci. Quindi, più o meno coscientemente, ci sta che entrare in una pratica con un senso di sacrificio personale ci funzioni, ci risuoni, ci sembri giusto.

E qui arriva la domanda: ma è davvero necessario? Davvero c’è bisogno di entrare in una pratica spirituale con lo stesso atteggiamento che teniamo, non so, al lavoro, focalizzati sulla forza di volontà, sulle cose che devono essere fatte, sugli obiettivi da rispettare e raggiungere? E se invece provassimo ad entrare nella pratica cercando il piacere di farla?

Ok, la prima risposta che viene in mente è “sì certo, bello, ma così rischia di diventare una cosa superficiale, futile, che non porta a nulla”. Ma perché impegno e piacere devono essere mutuamente esclusivi? Faccio un passo indietro, ad una parolina usata qualche riga sopra: sacrificio. Facile che la prima immagine che ci viene in mente sia quella classica di un Cristo stravolto dal dolore e dalla fatica che trascina la croce verso la meta della sua imminente morte. A guardare bene però la parola “sacrificio” viene dal latino, e significa “rendere sacro qualcosa, fare qualcosa di sacro”. Se quindi fare un sacrificio, o “sacrificarsi” nella pratica, non fosse il rinunciare al piacere personale ma il rendere sacro il nostro atto dando il meglio di noi? Se quindi fare qualcosa “con sacrificio” fosse davvero qualcosa di bello, non in senso altruistico, ma realmente bello e piacevole per noi stessi? Faccio un esempio: hai presente quando inviti degli amici a cena a casa tua, e anche se hai da sudare come un pazzo in cucina, sei contento di averli lì con te, e fai del tuo meglio perché la cena venga più buona possibile? Ecco: lì c’è il piacere di fare quello che fai, per dare il meglio di te, come se fosse un regalo per le persone a cui vuoi bene. E nello stesso impegno che metti sui fornelli c’è un enorme piacere. E se fosse questo il senso vero della parola “sacrificio”?

Se guardi la cosa in quest’ottica, è facile allargare il discorso: perché non avere questo stesso atteggiamento in qualunque cosa fai nella vita? In un libro che ho letto recentemente, c’era una frase che mi ha colpito e che parlava proprio di questo. L’autore chiedeva di pensare a tutto quello che per te è importante quando fai l’amore, quello che dentro di te, come atteggiamento, rende fare l’amore qualcosa di speciale. Poi continuava dicendo ora applica tutto questo ad ogni atto nella tua vita quotidiana: fai l’amore con la vita. Mettici tutto il tuo impegno, la tua presenza, ma anche la curiosità, il piacere, la gioia. Insomma, goditela!

Cerca il bello in tutto quello che ogni giorno ti circonda. Scegli quello che ti piace, che ti nutre, che ti dà gioia. Sceglilo stando presente a te stesso. E anche quello che devi fare, il lavoro, gli obblighi, fallo cercando di dare il meglio di te, per il piacere di essere creativo, presente, vitale. Guarda la tua compagna, con cui stai ormai da anni, in tutta la tua presenza, non darla per scontata, guardala cercando quello che ti piace di lei, magari trovando anche cose nuove di lei sorprendenti e piacevoli. Insomma, allenati alla pratica del piacere.

In questo modo, anche una pratica spirituale, di qualunque cammino si parli, può diventare, oltre che una strada per raggiungere una più profonda consapevolezza di sè, anche la palestra dove allenare un atteggiamento verso il piacere della vita. Il fare le cose cercando il gusto, la pienezza, la gioia ed il piacere di farle. Stando pienamente nel momento presente, nel fatidico “qui e ora”, senza tensioni ed ansie verso un obiettivo da raggiungere e standard da rispettare. 

Semplicemente, vivere e praticare per il piacere stesso di vivere e praticare.

Photo by Dorotha Dylka – unsplash.com