Qualche tempo fa, incuriosito dal titolo, ho cominciato a leggere questo articolo. Parla della realtà degli attuali movimenti per un “maschile sano” e tocca un sacco di punti che non posso, per spazio, mettermi ad elencare.

Quello che più mi ha colpito delle storie raccontate in questo articolo è un elemento comune a tutte: gli uomini, più o meno evoluti ed “in cammino”, sono tutti pieni di paure legati a quello che sono, paure di essere uomo.

Abbiamo paura perchè, in una società patriarcale, che per definizione prevede che gli uomini detengano il potere e usino strumenti come la violenza, aggressività, prevaricazione per mantenerlo, ci sentiamo completamente privi di potere.

Abbiamo paura perchè, mentre cerchiamo di costruire e condividere un’idea di maschile sano, di maschile sacro e luminoso, nella nostra società ormai da decenni il termine “maschile” è associato ad una montagna di accezioni tutte negative. E noi per primi siamo ripieni dell’idea che maschile vuol dire violento, prevaricatore, aggressivo. E siamo pieni del senso di colpa che questo si porta dietro.


“Il posto del capofamiglia non è un posto piacevole dove stare. La persona che ci si aspetta usi la violenza per difendere le persone non è in un posto salutare. Più uomini finiscono in prigione, più uomini finiscono nell’esercito, e maggiore sarà la probabilità che gli uomini facciano del male ad altri uomini. Mia madre mi ha detto che gli uomini sono sbagliati e che gli uomini sono malati. Questo è qualcosa che ho interiorizzato. E questo fa parte del patriarcato. Odiare noi stessi è un condizionamento sociale, è l’idea che c’è un solo modo di essere, e se non ci sentiamo in quel modo, dovremmo vergognarci.”

Dave Pickering

E questo lo viviamo in mille aspetti della nostra vita quotidiana. Faccio un paio di esempi personali.

Sono anni che partecipo a percorsi di crescita personale, dove gruppi misti lavorano sulle proprie ferite interiori condividendole con gli altri: spesso, quasi sempre direi, c’è una donna che racconta di essere stata abusata o maltrattata da padri, fidanzati, parenti maschi. Difficile non sentirsi chiamati in causa in quanto uomo, difficile non sentirsi sporco e colpevole.

Altro esempio, qualcosa di più quotidiano: quando la figlia adolescente della mia compagna esce il sabato sera, e si veste come un’adolescente vuole vestirsi per uscire con le amiche, io le dico di stare attenta a quello che indossa, a come si pone, a chi potrebbe incontrare e potrebbe approcciarla. In una parola, le sto dicendo di stare attenta agli uomini, in una parte della mia mente le sto dicendo di stare attenta a quelli come me.

Ecco, questo è quello che io intendo con “il segno di Caino”: più o meno coscientemente, ogni uomo sente di portare con sè tutto un peso di “etichette” negative, di condanne, di biasimi che hanno a che fare con il semplice inevitabile fatto di essere uomo.

Non voglio dire che le donne non dovrebbero tirare fuori le proprie ferite, o non denunciare il loro stato di vittime. Il tempo in cui le donne possono denunciare liberamente ciò che nella società subiscono, e chiedere un cambiamento radicale, è appena iniziato, a passi lenti e stentati.

Quello che voglio dire è che, se noi uomini vogliamo trovare una direzione (e ancora non ce l’abbiamo, anche se molte cose si stanno muovendo), una direzione in cui cercare un maschile diverso, sano e luminoso, che ci faccia sentire bene con noi stessi, allora il primo punto da cui partire è trovare il modo di superare il senso di vergogna. Trovare il modo di lavare dai nostri cuori quel segno di Caino. Perchè non sia una condanna che ci impedisce di essere qualcosa di nuovo, di diverso, di luminoso.

E sono fermamente convinto che la strada è farlo insieme, in un cerchio di uomini, dover poterci confrontare, condividere, specchiare l’uno nell’altro. E sostenerci in un processo di “pulizia” personale che non sarà per niente facile: questa roba, il segno di Caino, è incrostata sulla nostra pelle da secoli.

Ma cavolo se varrà la pena di farlo.