
Sono passati quasi 3 mesi dall’inizio della quarantena. Molti di noi l’hanno passata nella stasi più totale, con spostamenti minimi ed indispensabili, sempre carichi di un senso di pericolo. Alcuni di noi hanno continuato a lavorare da casa, altri si sono ritrovati costretti in uno stato di ferie forzate, nell’attesa che le cose andassero meglio. E per il resto, lo sappiamo tutti, ci siamo attaccati a whatsapp, skype, zoom e compagnia bella per incontrare amici, tenere riunioni, frequentare corsi.
Comunque sia andata, nessuno di noi ha potuto evitare una situazione nuova e potente di vuoto nel proprio quotidiano. Perchè inevitabilmente molte delle cose che riempivano le nostre giornate sono di colpo diventate vietate e pericolose. Per molti di noi, intendo noi uomini, questo può essere stato un tempo molto difficile. Individuo, cercando di restare più generale ma più sensato possibile, almeno due grosse ragioni.
Primo: siamo rimasti, per un periodo più o meno lungo, senza lavoro. Quello che fino ad ora ha riempito le nostre giornate, ci ha dato un ritmo, una cadenza, ha consumato una grossa parte delle nostre energie mentali e fisiche, puf sparito di colpo. Per di più, il nostro lavoro è quello che ci permette di portare a casa i soldi, di sostenere la nostra casa ed i nostri cari e che, in questo, ci dà un ruolo, uno scopo, anche un’identità. Siamo nel 2020 e tante cose sono cambiate ma, ammettiamolo, quella vocina che nella testa dei nostri nonni diceva “sei tu l’uomo, spetta a te portare la pagnotta a casa”, quella vocina in parte parla ancora nella nostra testa. E quella vocina non sente ragioni: se non ci riesci più, non importa che sia per una mancanza tua o per una pandemia planetaria, non sei abbastanza uomo, non vali più quanto dovresti. Possiamo, razionalmente, sollevare il sopracciglio quando vogliamo e prenderne le distanze, ma dobbiamo renderci conto che, se ci tolgono il lavoro, ci tolgono molto di più di incombenze, scadenze, fatica e busta paga. Parte del nostro ruolo, della nostra identità nella famiglia rischia di essere erosa, da noi stessi più che da chiunque altro.
Secondo: noi uomini siamo sempre e comunque per il partito del fare. Quando c’è un problema, una situazione di crisi, la nostra prima reazione è fare qualcosa, affrontare la situazione analizzando il problema e agendo di conseguenza. Osserviamo ciò che si è rotto, valutiamo i danni, prendiamo gli attrezzi che servono e ci mettiamo al lavoro.
Che sia una lampadina fulminata, una gomma a terra, un documento da presentare in comune, sentiamo che il mondo si aspetta che siamo noi a farcene carico e a fare quello che va fatto. In sostanza, reagire al problema, che parta da noi o come un’aspettativa generale, ci porta sempre ad uscire fuori da noi. E adesso? Niente. Dove vuoi uscire? A fare che? Affrontare la situazione attuale ci porta a fare tutto l’opposto. A restare fermi, in un tempo dilatato e lento, che inevitabilmente ci spinge nella direzione opposta: dentro, invece che fuori.

Dentro di noi, in contatto con quello che sentiamo, le emozioni che salgono, i pensieri che sono rimasti lì nell’angolo per mesi e anni. Tutto viene per forza di cose molto più a galla, ci arriva davanti al viso, non possiamo evitarlo. Anche facendo tutti i lavoretti di casa rimasti in arretrato, in tre mesi prima o poi ci siamo dovuti fermare, e ascoltarci. Noi uomini, lo sappiamo, se va bene siamo poco abituati a farlo, se va male odiamo farlo.
Ma in tutto ciò, se vogliamo smetterla di lamentarci contro il cielo e la sfiga e cercare un’opportunità in questo strano tempo di crisi, in tutto ciò sta una grande occasione per noi: quella, per una volta, di toglierci il vestito del lavoratore, smettere di essere l’idraulico, l’avvocato, il commesso, l’architetto tal dei tali. Ed essere semplice noi stessi. Prova: dì “io sono …” e aggiungi solo il tuo nome, niente titoli o attributi. Suona strano, suona più vuoto ed indefinito senza titoli di studio, lavori, aggettivi. Ma è anche molto più libero e leggero. E se abbiamo sfruttato bene questo tempo, abbiamo avuto modo di guardarlo negli occhi, questo curioso tizio “libero e leggero”, di conoscerlo un po’ meglio magari.
E adesso? La risposta che ti do è un’immagine, che in questi giorni continua a tornarmi davanti agli occhi: quella di un germoglio. Questo tempo di vuoto e di stasi, di esplorazione di uno spazio interiore, di onde emotive e sogni intensi, è come il tempo che il seme passa sotto terra, aspettando. E adesso, finalmente, è tempo di germogliare. Di cominciare ad uscire dall’oscurità, di riaffacciarci fuori. Ma quando germoglia, un seme sa esattamente di cosa ha bisogno, in che direzione vuole andare, e che pianta si nasconde in potenza dentro di lui. Ecco, nell’essere veramente il seme di noi stessi, potrebbe stare la vera novità di questo tempo.
Quello che auguro ad ognuno di noi è che questo tempo di quarantena sia stato un buon tempo per guardarci finalmente dentro, per stare bene in compagnia di noi stessi, per conoscere cosa ci piace davvero, cosa ci accende ed appassiona, cosa per noi ha veramente senso, valore, ha un cuore che batte. Quello che spero è che una volta finita la quarantena, apriremo le porte di casa con una nuova presenza a noi stessi, e che i primi passi che faremo fuori dalla soglia saranno più consapevoli e non andranno verso il solito tran tran quotidiano, ma verso qualcosa di nuovo, verso la direzione che per noi ha davvero un cuore.
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